Dopo un lungo silenzio, dovuto in parte al carattere riservato dell’uomo in parte agli impegni di docente del Liceo scientifico “G. Marconi” di Foggia, Alfonso Freda (Candela, 1930) irrompe nel modo dell’arte con una significativa silloge delle sue opere, che da un lato esplicita tutta la pregnanza di una ricerca pittorica orientata a stabilire, attraverso il colore e le immagini, un rapporto nuovo ed elegiaco con la realtà e con le res della natura, dall’altro testimonia la processualità dell’itinerario artistico ed esistenziale dell’autore. Libero da ogni preoccupazione di ordine intellettualistico e senza cedimenti a “ismi” di moda, Alfonso Freda, sempre fedele a se stesso, si è conquistato un suo originale e personale modo di comunicare con i colori che, per quanto giocato su più piani tecnici e tematici, trova origine/sostanza/fondamento nella predisposizione dell’artista a trasformare la realtà in un’ isola da scoprire con gli occhi incantati di un fanciullo.
C’è, infatti, nelle sue opere un continuum sentimentale, una sorta di Leitmotiv che attraversa tutte le opere o quasi,a partire da quelle del periodo giovanile (1948-1960) fino a quelle della ritrovata maturità (1990 1999), dopo una lunga pausa intermedia solo a tratti interrotta nel periodo 1964- 1970: è il suo modo di essere, di vivere, di guardare, di giocare con gli oggetti della natura/realtà, di continuare a “stupirsi”, nonostante tutto, in un persistente e sempre rinnovato “innamoramento” dell’esistenza, diventato ancora più saldo dopo una grave vicenda personale. La pittura diventa così per Alfonso Freda occasione per dare voce ad un “poetico” mondo interiore che urge alla coscienza e chiede di diventare immagine, colore, figura; diventa palpito, affetto, fermento, emozione dinanzi agli aspetti polifonici della realtà; diventa contatto con la natura ed immersione in essa per decifrare pascolianamente il “sorriso” e la “lacrima” delle cose.
Nei suoi quadri “racconta” in fondo se stesso l’autore, senza giochi sofisticati e senza suggestioni di moda, catturando sulla tela momenti, persone, cose, pensieri, sentimenti del proprio “vissuto” e del proprio microcosmo, quasi a non voler disperdere il patrimonio esperenziale della propria esistenza / “avventura dell’Assoluto”: proprio sulla vita come munus (dono/dovere) e sulla grandiosità/mistero della natura/vita s’innesta l’intensità di un legame affettivo con tutto ciò che appartiene alla microstoria del proprio spazio/tempo esistenziali e che, risorgendo dal fondo della quotidianità, carica ogni oggetto di significati nuovi e di molteplici suggestioni, dando origine ad un intenso tessuto di sensazioni simultanee e di embrionali analogie.
Di questa Welthanschauung intrisa di ottimismo e di “stupore” diventa metafora e simbolo la luminosità dei quadri, in cui tutto – persone e cose – acquista vividezza di luce, vivacità di presenza, splendore di colori: il verde, il rosso e l’oro, combinati ad arte, fanno giochi cromatici di persuasione e rendono davvero godibili le immagini, attraverso anche la “tecnica del colore sul colore”, capace, mediante il gioco calibrato delle luci e le opportune soluzioni tecniche, di dare alle tele una lucentezza ed una vigoria di essenza tali da immergere la pittura in una rinnovata leggiadria, non fatta più di forma, ma di sostanza effettuale, cioè di oggetti limpidi come cristalli fermati in una memoria senza tempo. E’, in fondo, tale tecnica – in cui si oggettiva il sentimento della vita dell’artista – il canovaccio grezzo sul quale intesse le sue variazioni tematiche ed affettive, una sorta di paesaggio fisso che fa da sfondo al “racconto” – sospeso tra realtà ed incanto – che si snoda nelle varie tele, pagine – non scritte ma intrise di aerosità poetica – del libro della vita dell’autore, frammenti del suo percorso esistenziale, tappe del suo itinerario artistico, raccolti oggi in una summa organica, che da un lato è per l’artista una sorta di bilancio personale, dall’altro un metaforico “viaggio” alle radici delle ragioni della sua stessa pittura. Alfonso Freda, con la raccolta delle sue opere, oggi diffuse attraverso un apposito sito in Internet, insegue tracce del suo cammino di uomo e di pittore, ne raccoglie ogni possibile indizio in un emblematico album di ricordi/sogni/desideri/attese/moti dell’anima, a testimonianza di un impegno artistico totalizzante, durato tutta una vita ed orientato a spendere tutta l’energia possibile dell’autore nell’indagine dell’eterno ciclo dell’esistenza, nell’intento di cogliere i rapporrti esistenti tra le cose, tra l’uomo e la natura, tra la contingenza della storia personale e la macrostoria del cosmo. L’interesse per il dato reale, per il fenomenico, per tutto ciò che appartiene al suo microcosmo e che lo “affascina” viene, in fondo, da lontano, sin dai tempi del periodo napoletano, quando l’artista era studente presso l’Accademia delle Belle Arti (fino al 1955, anno del conseguimento del diploma): si pensi al quadro intitolato “Natura morta” (1952), alla “Madonna con mantello” (1954), alla tela denominata “Marina” (1956), alle “Rose” (1956), ad ad “Orchidea” (1957) o a “Donna al bagno” (1958), in cui l’eleganza della linea, le tonalità riposanti dei colori, l’immediatezza delle immagini – per quanto contenute all’interno di una maturazione in fieri -, si compenetrano così intimamente da fondersi in un unico elemento figurativo, godibile non solo per l’architettura complessiva, ma anche per il metamessaggio sotteso, riconducibile tout court alla capacità dell’artista di trafiggere la realtà per raggiungere al cuore delle “cose”, là dove anche il minimo indizio ha suggestioni illimitate di segrete intese dell’anima, così profonde da essere elementi invariati della sua pittura.. Anche nella seconda fase – quella che va dal 1964 al 1970 – l’approccio realistico dell’artista si intreccia costantemente con la sua interpretazione elegiaca della vita, al punto che il dato oggettuale è circonfuso d’alcunché di poetico e trattato con lo stesso spirito di una “avventura dell’anima”, grandiosa per unicità e significato. Acquistano, infatti, grazie alla magia dei colori abilmente padroneggiati dal pittore, un’aura di incantevole sospensione i quadri del periodo della ripresa, sia che l’artista voglia fermare sulla tela l’immagine della “Chiesetta di S. Rocco” (1966) – una sorta di nòstos alle radici – sia che voglia catturare la bellezza della distesa delle acque solcate dalle barche in “Marina” (1965) o offrire uno squarcio di “Foce Varano” (1967) o dar vita ad una personale interpretazione della “Piazza di Rodi Garganico” (1967) tutta giocata sull’accostamento cromatico sia che voglia recuperare temi di ambientazione domestica come i “Gattini” (1966) – utilizzando questa volta pennarelli su cartone – o in “Anemoni” (1970).
E’, tuttavia, nell’ultimo periodo (1990 – 1999) che esplode, tutta intera, l’effervescenza creativa dell’artista, magma incandescente per troppi anni soffocato nella mente e nel cuore: a partire da quella data, infatti, tutta la produzione pittorica dell’artista è costellata da una lunga teoria di opere, giocate a più livelli e in più direzioni, a testimonianza di un percorso di ricerca variegato, oltre che speso in soluzioni diverse, tutte, però, poste su di un piano di “fedeltà” alla vocazione naturalista e figurativa di sempre.
Dalle riproduzioni di scorci di Foggia antica (Piazza xx settembre e il venditore di acqua”, 1966; “Foggia com’era”, 1966; “Malinconia di una notte d’inverno”, 1996; “Teatro dauno”, 1997; “Piano delle fosse”, 1997) a quelle di pittori come A. Carracci (“Particolare di Diana ed Endimione”, 1996) o Rosso Fiorentino (“Angelo musicante”, 1997); dalle ampie e soleggiate distese marine (“Torre Cerrano e mare”, 1996; “Silvi marina e Silvi alta (panorama)”, 1996; “Vieste sperone d’Italia”, 1998; “Marina con fanciulli e cane”, 1998) agli spettacoli naturali della terra d’adozione in Abruzzo dove il pittore ama trascorrere molti mesi dell’anno (“Luci e ombre in un tramonto abruzzese”, 1997; “Campo di girasoli”, 1997; “Ginestre e mare”, 1997) dal recupero di temi floreali e di natura morta della prima maniera (“Iris”, 1996; “Vaso con rosa”, 1966; “Composizione di frutta”, 1997; “Bottiglie e rose”, 1998) ai ritratti della moglie (“Ritratto di Palmira n°1, n°2, n°3); dagli intensi nudi di donna ai temi sociali (“Incontro in discoteca”, 1999; “In discoteca”, 1999) : è un pullulare incessante di lavori, una sorta di tempesta creativa che spinge l’artista verso soluzioni sempre più raffinate. Si può parlare, a tal proposito, di una diversa fase pittorica dell’artista che, per quanto collocata sul filo della continuità, ha tratti di significatività nuova: nella produzione dal 1990 ad oggi, infatti, il dato il dato della concretezza oggettuale della prima maniera, pur nella sua corposità, esce di prepotenza dalla propria staticità e si libra nell’aria con tale vigore e dinamismo da riuscire, poi, a trascendere i confini della materialità per diventare sentimento, pensiero, desiderio.
Potenza dell’arte, capace di dare vita alle cose perchè esse raccontino nella loro storia la storia interiore di chi le ha impresse sulla tela. In questo senso l’opera di Alfonso Freda ha in sé una sorta di “facilità difficile”, nel senso che tutto è giocato nei suoi quadri sulla tematica del “difficile”, in cui “detto” e “non detto” costituiscono i poli fondamentali dell’ “avventura artistica” del pittore.
Alfonso Palomba
Preside ITC “P. Giannone” - Foggia