Recensione alla mostra di Alfonso Freda di Alfonso Maria Palomba: “Il cammino e le orme”
Credo che in ogni uomo esista una contrada interiore, rassicurante come un sogno consolatore, nella quale, come in una sorta di cassetto segreto dell’anima, gradatim confluiscono pensieri, immagini, ricordi, suggestioni, palpiti, figure, volti, emozioni, lì collocati – quasi cristalli fermati in una memoria senza tempo – in attesa di un kairòs (tempo opportuno) che li faccia emergere in superficie, riportandoli alla lucentezza di un tempo. Così è avvenuto anche per Alfonso Freda (Candela, 1930), artista pregevole e di tutto rispetto, che finalmente – dopo decenni di produzione di opere pittoriche – ha deciso di cedere non solo alle insistenze della famiglia e degli amici, ma anche alle incessanti richieste dei suoi dipinti che, in una sorta di orwelliana rivolta, si sono dichiarati stanchi di vivere nel microcosmo della pinacoteca domestica e desiderosi di andare “a testa alta” tra la gente e, nel contempo, di potersi offrire piacevolmente alla fruizione di un pubblico più vasto, come quello della città di Foggia, in cui l’autore ha operato professionalmente ed artisticamente. Nasce di qui la mostra, inaugurata sabato 7 aprile 2018, presso la Civica Pinacoteca “il 9cento”, in via Marchese De Rosa a Foggia, durante la quale sono stati esposti settantacinque quadri, che hanno ottenuto un largo consenso di visitatori e notevoli apprezzamenti da parte di esperti, di critici d’arte e non solo. Settantacinque dipinti nel mare magnum della produzione complessiva di Alfonso Freda, che ha al suo attivo centinaia di opere: una piccola quantità, dunque, è la parte esposta al pubblico, ma credo di poter dire decisamente interessante per comprendere il percorso artistico dell’autore. Un’antologia, in altri termini, del meglio della produzione di Alfonso Freda, che non a caso ha intitolato la mostra personale “Il viaggio”, metafora della sua vita di uomo, ma anche senhal del suo itinerario artistico, iniziato, sul finire degli anni Quaranta (cfr. “Studio – Seneca e Antonio” – Carbonella su carta 86×62, Napoli 1948) e mai interrotto fino ad oggi, se non per qualche periodo, legato agli impegni professionali o a qualche vicissitudine di salute. “Il viaggio”, appunto, che, nel caso dell’artista, trascende la dimensione concreta e realistica del campo semantico del termine (spostamento nello spazio e nel tempo), per attingere quella del simbolo: per Alfonso Freda, infatti, “il viaggio” è una forma di osservazione della realtà, è la sua personale esplorazione del fenomenico e di tutto quello che lo circonda, è la sua esigenza di confrontarsi con esperienze sempre nuove, è una sorta di attraversamento delle contrade interiori della sua coscienza, nella ricerca di un senso da dare alle cose e a se stesso nel mondo. In questa direzione l’attività artistica dell’artista – candelese di nascita ma foggiano di adozione – diventa esercizio di conoscenza nel senso più ampio del termine, un modo per raccontare la propria vicenda esistenziale nel suo farsi storia, un’opportunità per comunicare le proprie emozioni e di “giocare” con gli oggetti del reale, ma soprattutto diventa occasione per riflettere sulla profondità che è dietro le cose, nella consapevolezza, per dirla con Marcel Proust, che il vero viaggio di scoperta non consiste nel cercare nuove terre, ma nell’avere occhi nuovi. Di questo sguardo sul mondo, maturo e consapevole, ma ad un tempo poetico e pregno di magia (al punto da richiamare alla mente, per quest’ultimo aspetto, gli occhi incantati di un fanciullo, come ebbi a dire nella mia precedente recensione, risalente al 1999), Alfonso Freda ha lasciato molte orme lungo il cammino, tracce significative di un percorso compiuto, segnali di una concezione dell’arte vissuta come impegno totalizzante, capace di “divorare tutto quanto è futile e provvisorio” (Natalia Ginzburg) e soprattutto di dare senso e significato alla propria vita, rendendola “angolata” alla percezione della bellezza dell’esistenza, della natura e del creato e tale da consentire all’artista candelese di coltivare toto corde il suo “interesse” per la pittura, al di là della frammentarietà del vivere e della ricerca di un sé oltre la “passione” del vivere. Tutto questo rappresenta per Alfonso Freda una sorta di télos, che diventa carne e si fa storia nelle sue tele, percepite come tappe intermedie di un percorso “affascinante”, che, per un verso, testimonia tutto il suo attaccamento alla vita, dall’altro la fatica e la gioia del cammino. Per la sua Weltanschauung e per la sua capacità di trasferire nei suoi dipinti il magma dei sentimenti che si agitano nel suo mondo interiore, intriso di meraviglia, di stupore, di bellezza, di incanto e di amore, l’artista è una “presenza” importante nel panorama degli artisti della Capitanata, della quale dà parziale testimonianza la mostra ospitata nei saloni della Pinacoteca “il 9cento”, la prima, credo, vuoi per la simplicitas del suo modo di essere vuoi per la sua concezione dell’arte che non può essere sottoposta a mercificazioni di sorta vuoi per impegni legati alla sua attività di insegnante, negli anni in cui era docente presso il Liceo scientifico “G. Marconi” di Foggia. Ovviamente Alfonso Freda, per dare voce all’onda dei sentimenti e delle emozioni che pirandellianamente urgono alla coscienza per diventare immagini, “gioca” con i segni, con le forme, con la luce e soprattutto con il colore, che è il suo vero punto di forza, un vero e proprio punto d’appoggio archimedeo: egli sa utilizzare con sapienza la materia cromatica, rendendola capace – sulla scorta di una corrispondenza biunivoca tra la “rappresentazione” del dato sensibile e ciò che abita nel profondo dell’artista – di suscitare emozioni in chi osserva il dipinto e, nel contempo, di veicolare una sorta di metalinguaggio, nel senso che i suoi colori, attraverso la malia della loro musicalità, sanno parlare di se stessi e delle loro infinite possibilità espressive. Qui, in fondo, riposa la magia della pittura che, nel caso del Nostro, si lega a doppio filo con la sua capacità di “leggere” il mondo attraverso la filigrana della sua sensibilità e della sua immaginazione: illuminanti a tale proposito mi paiono le parole di Pablo Picasso, per il quale <<L’arte è una professione da cieco: uno non dipinge ciò che vede, ma ciò che sente, ciò che dice a se stesso riguardo a ciò che ha visto>>. Nello spicilegio delle opere presentate in occasione della mostra di Foggia, aperta anche alle scolaresche fino a domenica 22, credo che si possano individuare le dimensioni fondamentali della produzione pittorica di Alfonso Freda, quelle che fanno di lui “l’aedo del nido”, “il cantore della bellezza della natura”, “il ricercatore di sentieri nuovi”. Il “nido”, infatti, concepito nell’accezione pascoliana, è ricorrente nella vision artistica del Nostro, per il quale esso è simbolo di casa, sinonimo di amore, unione, calore, difesa, protezione, vero e unico microcosmo degli affetti domestici: ne sono testimonianza i tanti dipinti dedicati alla consorte Palmira (cfr. “L’artista e la moglie nella loro residenza estiva”), ai figli Savino e Rocco, alla nuora Michela e alla nipote Anna. Il “nido”, però, non si restringe esclusivamente al microcosmo domestico, ma si dilata, a mo’ di cerchi concentrici, fino ad inglobare il paese natio (Candela), come testimonia il dipinto “Chiesetta di S. Rocco in collina” che, per quanto datato 1966, è senhal di un attaccamento tenace alle radici; così come la città di adozione (Foggia), alla quale sono dedicate, nell’esposizione, più tele, come “Foggia, piano delle fosse” (1997), “Piazza XX settembre e il venditore d’acqua” (1996) e “Malinconia di una notte d’inverno” (1996), riportata sulla prima pagina della brochure di presentazione della mostra. Ciò che “affascina” maggiormente l’artista, però, è la natura nella polifonia dei suoi aspetti e nella molteplicità delle sue voci, la natura con tutto il suo profumo di meraviglia e di bellezza (cfr. “Papaveri” (2006); “Composizione di fiori e anfora”, 2004), l’una e l’altra colte nella loro pienezza, sulla base di una sorta di incantamento dell’anima, che è quel sortilegio che si impossessa dell’artista e provoca in lui stupore, curiosità, emozioni, palpiti stati d’animo, di cui parlano i suoi paesaggi e le sue nature morte (cfr. “Utensili e colazione dell’autore”, 1965; “Frutta e api”, 2001;) che crescono sulla tela conquistando spazio e dimensioni precise. Ancor di più la malia dell’incantamento lievita in ricchezza di sentimenti e in echi di intese dell’anima con la magia del creato nei dipinti “Alba sul mare” (2004), “Crepuscolo sul mare”(2009), “Tramonto sull’Adriatico”(2013), che hanno un’intensità espressiva particolare, grazie al “gioco” della materia cromatica e della luce che risente di suggestioni post-impressioniste. C’è, infine, una terza dimensione nella mostra antologica di Alfonso Freda, che, per quanto incardinata nella riproduzione di grandi opere d’arte (dall’olandese Vincent van Gogh al francese Claude Monet, dal norvegese Edvard Munch allo spagnolo Joan Mirò), è, comunque, segnata dalla sensibilità e dal bisogno impulsivo di dare testimonianza del suo sentire: è possibile in questa direzione dire che l’artista non sceglie a caso le opere da riprodurre, ma sceglie solo quelle che gli hanno consegnato “qualcosa” sul piano umano e su quello della maturazione artistica ad un tempo (cfr. in particolare “Impressione, levar del sole”, 1872, di Claude Monet, che rappresenta l’alba nel porto di Le Havre). Questo percorso di rivisitazione delle grandi opere d’arte è temporalmente collocato dopo il 2000 (vero e proprio terminus a quo, con riferimento al dipinto “Il sorriso delle ali fiammeggianti” di Joan Mirò) ed è praticamente coevo con l’approccio di Freda al mondo della musica, con la trasposizione olio su tela di copertine di album cult del rock e ritratti di musicisti in esibizioni dal vivo che hanno segnato in qualche modo la storia della musica. Penso ai dipinti intitolati “Amico fragile. Omaggio a Fabrizio De André” (2017); “Omaggio a John Coltrane” (2014), “Kind of Blue. Omaggio a Miles Davis, datato marzo 2015; “Deep Purple – Stombringen” 1974, risalente all’aprile del 2015; ma in modo particolare penso al quadro “The dark side of the moon”, 1973, dei Pink Floyd, che porta la data del marzo 2014. In quest’ultima tela solo pochi tratti ma densi di espressiva tensione: al centro un triangolo, raffigurante un prisma stilizzato (l’uomo) che, illuminato a sinistra da un raggio di luce (la vita), libera a destra un arcobaleno di colori. Freda sa rendere con maestria e sensibilità la ratio della copertina dell’ottavo album del gruppo inglese, “giocando” con la luce e soprattutto con i colori e consegnando nel contempo a chi osserva un piacevole godimento estetico. E’ il caso di dire che Alfonso Freda, anche quando non si cimenta direttamente con oggetti del reale e si serve della mediazione di grandi opere (artistiche in senso lato), non guarda, ma vede, non riproduce, ma ricrea, non trova, ma cerca: questo perché, al di là dei contenuti che di volta colpiscono i suoi sensi e il cuore, nelle sue opere non tanto è messa in rilievo l’immagine reale quanto il rapporto tra essa e l’animo dell’artista, che, a dispetto anche dell’età, continua nel suo incessante cammino di esplorazione di esperienze sempre nuove, alla ricerca della sua libertà espressiva (attraverso i colori e la luce), per soddisfare, da un lato, il suo desiderio di armonia e di equilibrio, dall’altro per affermare la necessità di esprimere se stesso, la realtà che lo circonda e il suo bisogno di collocarsi nel mondo. Meno male che l’artista Alfonso Freda si sia deciso oggi, mentre il “viaggio” continua, a condividere con la cittadinanza foggiana le sue opere che finora erano note solo a parenti ed amici. Meglio tardi che mai.
Recensione alla mostra personale di Alfonso Freda “IL VIAGGIO”
a cura di Alfonso Maria Palomba